Giubileo della Speranza – le parole che restano
Nel giorno della chiusura del Giubileo della Speranza, condividiamo integralmente l’omelia pronunciata da S.E. Mons. Giuseppe Mengoli.
Un testo denso, che invita a non archiviare l’Anno Santo come una semplice sequenza di eventi, ma a custodirlo come cammino interiore, fatto di conversione e carità, secondo la tradizione viva della Chiesa.
Un richiamo forte alla famiglia, alla responsabilità personale, alla fede che si traduce in scelte concrete.
👇 Di seguito il testo integrale dell’omelia 👇
Omelia di S.E. Mons. Giuseppe Mengoli
in occasione della chiusura del Giubileo della Speranza – 28 dicembre 2025
Il Signore è nato povero. Ha rinunciato a tutto, eccetto che a una famiglia. È ciò che in quella notte hanno visto i pastori ed è quello che il Vangelo oggi ci consegna. Lo sguardo della fede riconosce in quel bambino il Figlio di Dio e, nello stesso tempo, in maniera inseparabile, allo sguardo umano si presenta accanto a lui il calore di una madre e di un padre, la tenera premura di una famiglia. Da questa icona vivente il messaggio che giunge è chiaro: mai il Signore senza una famiglia, mai una famiglia senza il Signore.
Nella descrizione dell’evangelista Matteo, tuttavia, prima sotto forma di richiesta divina e poi sotto forma di obbediente risposta, ricorre per quattro volte una stessa espressione che merita senza dubbio la nostra attenzione: “Prendi con te il bambino e sua madre”.
“Prendere con sé” è un termine che ha il sapore della reciprocità e rivela il tratto delicato e sicuro del sì di Giuseppe.
Questa reciprocità subisce una battuta d’arresto quando, davanti all’iniziativa divina di abitare tra gli uomini, “i suoi non l’hanno accolto”. È lo stesso verbo, ma al negativo, e contiene tutto il peso del rifiuto.
“Prendere con sé” significa fare del dono di sé la scelta prioritaria. Significa non rimanere sul piano delle intenzioni, ma amare concretamente. Ad ogni costo. E pagando in prima persona.
Significa accogliere l’altro totalmente e per sempre, misurare il proprio tempo e i propri spazi in rapporto a lui, scegliere senza partire da se stessi.
Da dove viene questa forza a Giuseppe? Dal sentirsi lui per primo accolto, preso per mano e condotto amorevolmente. A Betlemme quel mistero d’amore si offre alla sua contemplazione e Giuseppe, docile, si lascia guidare dalle parole dell’angelo. Non batte ciglio, perché ha scoperto la Verità.
Una lettura dell’Anno Santo non può fermarsi a un approccio superficiale o sociologico. Non bastano i numeri, i raduni, gli eventi. Né l’incontro con il Papa può essere considerato il vertice del pellegrinaggio giubilare.
Occorre tornare alle condizioni che la tradizione della Chiesa ci consegna: pentimento sincero e carità operosa.
Il cammino che va dal pentimento alla carità dura una vita intera. Per contrasto, pensiamo alla figura di Erode: arrogante dentro, violento fuori, apparentemente forte ma in realtà solo e perdente. Cercava “la vita del bambino”, ma senza conversione e senza carità quel desiderio diventa distruttivo.
Il Giubileo volge al termine. Cosa ci rimane? Meglio: chi ci rimane?
Rimane il Signore Gesù, il Verbo fatto carne, la porta sempre aperta. Sta a ciascuno di noi attraversarla, nel segreto della coscienza e nelle scelte quotidiane, senza lasciarsi paralizzare dalla paura.
“Alzati!”: come a Giuseppe, l’angelo lo dice ora anche a noi. È il grido rivolto a chi attende ancora segni di conversione e di carità. Alzati, perché forse pensi di essere in piedi e invece sei seduto.
La postura giubilare della Vergine Maria, che si alzò di buon mattino per correre da Elisabetta, ci indichi la direzione dei nostri passi.
Amen.



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